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Apiro
Apiro è un comune italiano di 2 107 abitanti[1] della provincia di Macerata.
Storia
Il paese era abitato già nel periodo dei piceni e dei romani in seguito, devastato da Goti e Longobardi venne inglobato da quest’ultimi nel ducato di Spoleto.
Il toponimo Apiro deriva dal latino ad pirum (‘al pero’), che è molto probabile alludesse a un albero di pero, punto di riferimento geografico della zona.
Nel 1227 si resse a libero comune, capoluogo della Valle di San Clemente, che inglobava alcuni castelli della zona. Ma già lo stesso anno venne conquistata dalla città di Jesi e immessa nel suo contado.
Nel 1433-34 venne conquistata da Francesco Sforza e in seguito passò sotto il dominio pontificio fino all’Unità d’Italia. Restò sotto la giurisdizione pontificia fino all’Unità.
Monumenti e luoghi d’interesse
Sorge sulla centrale piazza Baldini e costruita nel 1632, su un precedente edificio, per volere di Giovanni Giacomo Baldini (1581-1656), dottore locale che si trasferì a Roma divenendo il medico personale del cardinale Scipione Caffarelli-Borghese, di papa Urbano VIII e di papa Innocenzo X. Baldini fece elevare la chiesa a collegiata e le fece ricchi doni e lasciti. Al suo interno conserva un organo del 1771 di Gaetano Callido e notevoli suppellettili e opere d’arte fra cui tele di Valentin de Boulogne, Andrea Lilli e dello Spagnoletto.
Palazzo del Comune
Su piazza Baldini, a fianco della collegiata, è il municipio, già palazzo dei Priori, venne eretto nel 1246 e fortemente rimaneggiato nei secoli successivi. All’interno conserva polittico della Madonna colBambino e Santi eseguito nel 1366 da Allegretto Nuzi
Chiesa di San Francesco
Costruita prima del XII secolo, è l’edificio più antico del paese, anche se venne rifatto nel XVIII secolo. Conserva del primo edificio un portale romanico-bizantino del XIII secolo.
A pochi chilometri dal centro sorge quest’antica abbazia, consacrata nel 1086, ma risalente a prima dell’anno Mille. Tuttavia venne distrutta nel XIII secolo da un incendio e rifatta con l’edificio attuale. Si presenta di stile romanico–gotico divisa in tre navate e tre absidi semi-circolari. All’interno conserva ancora affreschi dell’epoca. All’inizio del XV secolo iniziò la sua decadenza tanto che nel 1442 si unì all’Abbazia di Valdicastro, tenuta dai Camaldolesi, a cui rimase fino al 1810.
ELCITO
Chiamato anche il Tibet delle Marche[1], si tratta di un piccolo borgo arroccato su uno sperone roccioso a 824 m di altezza alle pendici del monte La Pereta, non lontano dal San Vicino. È ciò che resta di un antico castello eretto a difesa dell’abbazia benedettina di Valfucina.
Il paese è frequentato soprattutto d’estate, dai proprietari di seconde case di San Severino Marche. A Elcito non c’è mai stato un emporio o un negozio, neppure per i generi di prima necessità perché fino agli anni settanta era una comunità autosufficiente: vi erano duecento persone che avevano un intenso rapporto con la loro terra, fonte primaria di sussistenza[2]. Al censimento Istat 2019 risiedevano a Elcito solo 7 abitanti.
Elcito si raggiunge da San Severino Marche percorrendo la strada per Apiro fino alla frazione di Castel San Pietro dove si imbocca la strada, 5 km circa, che conduce al paese. A differenza di altri insediamenti marchigiani posti su pendii collinari, sorge su di uno scoglio alto e scosceso, sito alle falde del Monte San Vicino.
Etimologia del Nome “Elcito”
Il particolare nome Elcito deriva da elce, altrimenti noto come leccio (Quercus ilex). Sebbene la lecceta sia tipica della macchia mediterranea, in era post-glaciale aveva colonizzato anche le aree più interne, ed è probabile che ce ne potessero essere residui nella gola rocciosa sottostante il paese, col suo particolare microclima.[3]
Ponte delL'intagliata o ponte Romano
Per arrivare al Ponte dell’Intagliata, bisogna scendere da Cingoli in direzione Lago di Castreccioni, appena passato il Ponte sul Musone, si svolta a destra in direzione del Parco Avventura, oltrepassarlo per circa 800 mt., nei pressi di una piazzola di sosta con una lapide, si posteggia. Dopo una recente riqualificazione del sito, proprio davanti la piazzola, è stata fatta una strada sterrata che si immette nel vecchio sentiero, in circa 10 minuti, seguendo la segnaletica, si arriva al Ponte Romano. Il ponte, costruito in epoca medievale, faceva presumibilmente parte di un sistema fortificato che si trovava in questo tratto del fiume Musone, forse zona di confine tra il fronte longobardo e le pertinenze bizantino-ravennati. Vicino, si trovano importanti resti di un antico mulino, si intravedono resti di cunicoli e di uno sbarramento sul torrente che alimentava il Mulino stesso. A valle del Ponte, si trovano altri tre mulini, mi sembra che tutti e tre appartenevano ed appartengono, alla famiglia Bravi, storica famiglia di mugnai di Cingoli. Il primo si trovava presso le Cascatelle di Cingoli, adesso dismesso, il secondo in località Molino, le prime notizie dell’esistenza del molino risalgono addirittura al 1565. Sembra che un tempo quella fosse la sede di una vera e propria industria dove oltre al mulino c’era una polveriera,(fabbrica di polveri piriche) un frantoio e anche una segheria. Sempre alcuni documenti storici indicano quale proprietario del molino nel 1856 l’industriale Filippo Pasqualini le cui iniziali sono visibili ancora oggi sulle tavole delle macine. La proprietà passò poi al Marchese Ferdinando Mattioli Pasqualini e poi alla famiglia Bravi, il terzo, dismesso, ma intatto nella sua struttura, si trova di fronte la chiesa delle Valcarecce.
Gli ampi terrazzi alluvionali del IV e del III ordine che si estendono alla destra del Fiume Musone, racchiusi tra questo corso d’acqua e il Fosso di S. Bonfiglio, terminano con un terreno, denominato localmente Codardone, che ad un tratto si restringe e si allunga in direzione NO, separato dai contigui campi di Perticheto e della Cervara da alte pareti verticali che ne fanno una minuscola “penisola”. Lungo il lato del Codardone risparmiato dall’erosione fluviale si apre un’ampia fossa, residuo d’un antico vallo, alla quale va riferito plausibilmente il toponimo Intagliata, sopravvissuto accanto ai ruderi di un mulino prima, di un ponte poi, tuttora visibili nelle immediate vicinanze del sito. La presenza di quest’opera di difesa e di fortificazione che, se invasa dall’acqua, avrebbe separato completamente il luogo dai campi circonvicini e la presenza sul terreno in esame di numerosi frammenti di ceramica mediovale, giustificano la proposta di identificare il luogo stesso con quello sul quale sorse il castello dell’Isola degli Orzali, la prima parte della cui denominazione avrebbe in tal caso definito la peculiarità del sito, sulla quale, del resto, la descrizione dei confini del castello non lasca dubbi: “…medietas Castri Insule cum atrio existente ibi, positi in fundo Mussionis, quatuor lateribus foveum Castri cum Mussione…”. Nel 1216 il signore del castello dell’Isola degli Orzali, Attone figlio del Conte Alberto, divenne cittadino apirano; il castello passò quindi sotto il dominio di Apiro. Il Baldetti ipotizza che il tratto di valle del Musone nel quale la fortezza era situata rappresentava una zona di confine tra il fronte longobardo e le pertinenze bizantino-ravennati per la presenza nelle vicinanze di una fara. A questo importante toponimo longobardo se ne possono aggiungere altri tra i quali Perticheto, che designa la fascia del fondovalle posta al di là del Fosso di San Bonfiglio e che potrebbe derivare dalla presenza di un cimitero barbarico, e la tumba sancte Novite, sita in un punto imprecisato del Monte Nero. Di fronte a Perticheto e in continuazione del Codardone, dirigendo verso il monte ora menzionato, si hanno invece Palazzetto e Campo dei Greci, vocaboli desunti dalla tradizione orale sulla cui evidenza e sul cui peso è inutile soffermarsi. Si prospetta pertanto la possibilità che il castello dell’Isola degli Orzali sia sorto su una precedente fortificazione altomedievale di carattere limitaneo, possibilità che trova sostegno nella constatazione dell’esistenza, nel 1325, di un castellare in vocabolo Quintaparte, cioè sulle estreme pendici del Monte Nero, al confine con Perticheto e in prossimità dell’antica chiesa di Santa Maria della Fara, di una seconda fortificazione, dunque, che potrebbe avere svolto il ruolo di antagonista del presidio bizantino.
Monte San Vicino
La montagna è di origine mesozoica e vi prevalgono rocce di tipo calcareo.
Etimologia
La montagna era un tempo chiamata anche Monte Suavicino.[3][2]. L’origine del nome San Vicino è forse legata alla divinità romana di Giano, il Giano bifronte vigilante (vicilinus), a cui la montagna potrebbe essere stata dedicata perché vegliasse sul confine tra i Piceni ed i popoli Umbri.
Descrizione
Questa montagna ha una particolarità: vista da sud ha una forma a gobba di cammello, da nord assume un forma tricuspidale, e da est o ovest assomiglia a un vulcano spento. Dato il suo isolamento il monte è facilmente distinguibile anche da molto lontano, e dalla sua cima si gode di un vastissimo panorama che arriva fino alla Dalmazia.
Poco lontano dalla sua vetta si trova una grande croce di ferro. Il giorno di Pasquetta, come da tradizione, gli abitanti dei paesi vicini sono soliti andare a fare un picnic con pizze pasquali e salumi sulla cima del monte.